Il film carcerario non è un genere che prediligo ed “il profeta” non è un film perfetto, qualche difetto di coerenza e soprattutto di prolissità lo si trova, ma è comunque un film valido, con sue peculiarità che lo distinguono dai film del genere, parlo di quelli francesi in particolare, perché gli altri non li conosco.
Innanzitutto la libertà, ciò cui anelano i carcerati, anche a scapito della propria sopravvivenza, non è il tema di questo film in cui, per il protagonista, un franco arabo di nome Malick, la sopravvivenza ad ogni costo è tutto; sopravvivenza e potere sono i temi che il film sviluppa e lo svolgimento è interessante per la sottolineatura di due aspetti particolari:
il primo è che la libertà non è condizione necessaria per esercitare il potere, anzi, andando avanti nel corso della visione si evidenzia il contrario, vale a dire che una cosa nega l’altra, per cui la libertà diventa incompatibile non solo per chi subisce il potere, ma anche per chi lo esercita;
il secondo è che il potere si nutre di illegalità e tutto quello che è divieto, quindi illegale, dal fumo in su, diventa oggetto di interesse e motivo di attività per la criminalità, rivolta ad un guadagno anche economico, la cui finalità però non è affatto chiara se non quella di mantenere ed accrescere il potere stesso che lo genera.
Siamo all’interno di un carcere dove si formano clan, bande, mafie, collusioni, cose di cui ne sapevamo già qualcosa, ma la prospettiva dei protagonisti non è l’uscita dal carcere per vivere una vita migliore, sembrerebbe che fuori dal carcere non vi sia nulla di particolare che valga la pena di essere vissuto e che se ne esca solo per necessità operativa, vale a dire per delinquere; in altre parole il potere è una prigione, una gabbia, dalla quale non si può evadere, che rinchiude chi lo detiene ed il carcere è metafora della vita e della condizione umana e l’unica libertà/vacanza possibile, che ci si può talvolta concedere, paradossalmente, è la cella di isolamento.
Malick, il protagonista, all’inizio del film è una tabula rasa, se non è un ragazzo selvaggio poco ci manca; deve fare 6 anni, che non sono pochissimi ma che non sembrano nemmeno una eternità e una volta fatti lascerebbero il tempo per rifarsi una vita; del suo pregresso non sappiamo nulla e per buona parte del film poco o nulla ci viene rivelato di ciò che c’è dentro di lui, se non la coerenza che non viene mai a mancare di un comportamento asettico e una sua innata capacità di apprendere; Malick diviene subito preda di Luciani, un galeotto capo clan potente e violento, che dentro al carcere fa il bello e cattivo tempo; Malick fa buon viso, sta al gioco, anche se il gioco è pesantissimo e Malick deve lasciare dietro di se una scia di sangue prima di liberarsi della influenza di Luciani, con cui non stabilisce mai ed in nessuno modo un rapporto umano e lo asseconda sempre e solo in modo strumentale e finalizzato; Malick vive 6 anni da opportunista, un inferno, aspettando l’occasione di smarcarsi dal boss, per diventare a sua volta un boss potente ed ossequiato quando uscirà dal carcere, “rieducato” e “reinserito” nella società.
Una domanda sorge su Luciani durante la visione del film: perché con tutto il potere che ha dentro e fuori il carcere, dove a arriva anche ad un livello politico influente, non ne esce mai? Credo che non ci sia risposta, sarebbe come chiedersi, visto che è Pasqua, perché Cristo, pur potendolo fare, non è sceso dalla croce; è il gioco della parti.
[Modificato da verdoux47 05/04/2010 17:43]