Già autore di capolavori come “il tempo dei cavalli ubriachi” e “turtles can fly”, Ghobadi si conferma grande regista con “i gatti persiani”, cambia stile e linguaggio rispetto ai precedenti film, ma il messaggio rimane sempre lo stesso e sempre forte e chiaro, un urlo per la libertà, un urlo contro tutte le costrizioni e gli impedimenti che la limitano o la negano.
Siamo a Teheran ed un gruppo di giovani vorrebbe fare musica rock, che è proibita dal regime, e loro si devono adattare e farla di nascosto, quindi li troviamo nelle cantine, nelle stalle, sulle impalcature delle case in costruzione, nei campi, ma soprattutto questi giovani underground vorrebbero essere liberi, vorrebbero vivere, vorrebbero andarsene in giro per il mondo e costituire delle band; il film è piuttosto decontestualizzato, Teheran è mostrata come una periferia anonima, la vicenda potrebbe svolgersi ovunque, Ghobadi non mostra particolare acrimonia né verso il regime iraniano né verso chicchessia, il suo messaggio vuole essere ed è universale, il tono rimane distaccato e talvolta ironico, il tentativo è di essere politicamente corretto nella vana ricerca di una felicità che non si trova, ma alla quale non si rinuncia, una ricerca dalla quale non si demorde mai, in una rincorsa senza fine che riporta sempre daccapo al punto di partenza, con un velo di malinconia, in una specie di moto perpetuo che non vuole chiudersi.
È un grande film, forse un capolavoro.